Ricordi e racconti
Alla ricerca del paese perduto
di Ciccio Innocente - Ninì Urbano - Antonio Scandone
p r e s e n t a z i o n e
Salice Salentino, Chiesa Matrice dell'Assunta,
lunedì 4 gennaio 2010, ore 18
Ben volentieri mi trovo a conversare con voi in questa bella Matrice di Salice, in un paese che è in debito con me: nel 2000, infatti, gratis et amore Dei pubblicai Salice nel Cinquecento, uno studio fondamentale per chi voglia approfondire di quel secolo così lontano la vita locale (Chiesa e pietà popolare, Università e popolazione, Baronia). Pur avendolo allora sufficientemente diffuso, pochi ne sono a conoscenza, anzi ignora questo testo financo la bibliografia salicese inserita in Internet.
Ma bando alle lamentele. E passiamo subito all'esame del volume di questa sera.
Una prima considerazione: si dice spesso dobbiamo guardare al futuro, dobbiamo costruire il futuro; ma contemporaneamente ci rendiamo conto che bisogna tener salde le radici. Difatti -l'ho sempre sostenuto- dalle radici parte la linfa che nutre l'albero e lo fa crescere: senza le radici, dunque, l'albero -e fuor di metafora il futuro- non dà foglie, né frutti…
Il libro che presentiamo stasera, Ricordi e racconti, Alla ricerca del paese perduto, risponde appieno a questa pressante esigenza: è una raccolta che, nel riproporre il passato alla maniera di Marcel Proust (À la recherche du temps perdu), si proietta al futuro, si rivolge alle nuove generazioni.
Vi troviamo quadretti, medaglioni e saggi di agile lettura; è un testo che, pur peccando a volte di sviste e refusi tipografici, riesce a coinvolgere e a suscitare grande interesse. Del resto esso accomuna gli sforzi di tre vostri concittadini, fra loro uniti dall'amore per il borgo natìo, pieni di entusiasmo e di voglia di registrare (e comunicare) ai compaesani le vicende minori di un passato altrimenti per sempre perduto. E questo è il loro merito principale.
Nell'opera la parte del leone è di Ciccio Innocente, il quale si offre al lettore con ben 18 pezzi: questi, scaturiti dall'appassionata consultazione di tanti atti dell'archivio parrocchiale, costituiscono una ricca antologia in cui, in maniera sempre spigliata -se non esuberante e a volte con eccessiva fantasia- si susseguono e si sgranano come un rosario curiosità, fatterelli, episodi spiccioli, personaggi, ambienti, insomma la cronaca minore soprattutto del Sette-Otto-Novecento salicese.
Dopo il perentorio suo invito iniziale a creare in loco un museo delle tradizioni locali (di cui riporta un'ampia raccolta di termini idiomatici), ci parla del castello (il cui piano superiore ebbe a crollare nel devastante terremoto del febbraio 1743 -non del 1744!-), dei mercanti girovaghi con le loro voci e suoni; racconta dell'albero del diavolo nella contrada Santu Larienzu e di uno scherzo di cattivo gusto dei tempi andati, ma pure delle anime che escono a mezzanotte in un'atmosfera irreale e piena di tensione e mistero; rivisita gli anni della fame e della miseria con lo sfarinato d'orzo che impastato e cotto diventa lu squajatu; i giorni della siccità, le superstizioni e la processione della statua di S. Francesco con la solita acciuga in bocca e vere e finte penitenze propiziatrici; tratta del convento, prendendo spunto -come è prassi- dagli storici locali Quarta e De Nisi (con i loro testi ufficiali -direi sacri- ma ormai datati e forse per molti aspetti superati e con qualche errore, specie quello del copertinese Quarta): ad ogni modo, io pure mi sono occupato del convento nella mia Salice nel Cinquecento, proponendo inedite notizie d'archivio.
Ciccio Innocente ci informa, poi, della fortuita scoperta dello scheletro di un giovane sepolto fuori dalla chiesa: crede di poterlo identificare con un brigante…; ci fa sapere dell'acchiatura, un tesoro scovato nel pozzo te li quaji, che arricchisce una famiglia; riporta alla memoria due preti d'altri tempi, due macchiette, Papa Tore e Papa Pici (quest'ultimo dedito a prestiti di danaro ai conterranei in difficoltà).
Ma Ciccio si commuove -e ci commuove-, nel pezzo "Raccogliendo cicorie" dinanzi alla morte per avvelenamento della quattordicenne Lazzarina e ricorda la fiera del '43, bruscamente interrotta dai bombardamenti.
Ritrova quindi le proprie radici in un contratto di matrimonio -del 1670- (con relativa dote) riguardante un suo antenato: a questo proposito mi sia permesso evidenziare che già nei notai del Cinquecento si conservano elenchi dotali, cioè di pannine, come le nostre nonne definivano i corredi ancora qualche decennio fa. (Sempre nella mia Salice nel Cinquecento ne ho riproposti taluni degli anni 1562-71).
Ancora il nostro Ciccio, nel brano "Tata mia", prende atto con grande sofferenza della mortalità specie infantile dei secoli passati, quando inopinato morbo improvvisamente si passava da questo all'altro mondo; ricostruisce la storia plurisecolare delle campane di questa Matrice; racconta di un altro tesoro (fatto di tredici sacchetti di monete) rubato ad una famiglia benestante; e, infine, rivede per noi le decorazioni pittoriche settecentesche dei vari settori del controsoffitto della chiesa in cui ci troviamo stasera.
Al sottoscritto, professore pignolo, spiace però che qualche parte in lingua latina (peraltro da me per lui decifrata e chiarita) sia stata riprodotta con vari errori (imputabili all'editore o ad altri); e che, nel contratto di nozze, la conclusione nulla abbia a che spartire con il resto della scrittura notarile. La fretta di presentare l'opera in periodo natalizio forse ha avuto il sopravvento… sarebbe opportuno inserire un'errata corrige!
Ad ogni modo, è certamente doveroso rimarcare i tanti meriti di Ciccio Innocente, soprattutto la sua tempra di ricercatore tenace e attento e il piacere di divulgare le sue scoperte, con un linguaggio normale, semplice ma gradevole.
Tre i contributi di Ninì Urbano. Sorprende la sua espressione sempre scorrevole, ricca di sfumature, di penetranti osservazioni, molto avvincente: con pennellate rapide ma vivaci e puntuali l'autore ritrae una umanità dolente, spesso ingenua e sottomessa, povera materialmente e spiritualmente; in particolare i personaggi da lui descritti s'imprimono nella mente, ci turbano e comunque ci fanno riflettere.
Il primo brano è intitolato "Dindò" e narra di un vecchio "disgraziato martire" della "innocente ferocia" dei ragazzi del paese negli scorsi anni Cinquanta: è "ricco di null'altro se non di solitudine".
Deriso e maltrattato in vita, alla sua morte tutti ammutoliscono e inavvertitamente scoprono… d'avergli voluto bene.
Sul palco di questo pirandelliano teatro popolare compare subito dopo un altro tipo, fra Giovanni, chiamato "Domai, domai" (cioè "Domani, domani") per le battute da lui usate in risposta alla domanda di santini da parte dei fanciulli: un frate del locale convento, 'nu monico cercantino, lui pure senza tempo, umile anzi insignificante, "sorridente, silenzioso, non visto". "Chi si umilia, sarà esaltato" sembra di leggere fra le righe.
Il trittico si completa con le scene familiari e paesane di "Lu pane fattuccasa", in cui con voluta nostalgia si rievocano tutti i rituali annessi e connessi alla cottura del pane.
Chiude l'opera un'altra trilogia, quella di Antonio Scandone che, con una prosa ampia e ben articolata, sempre chiara e senza fronzoli, ci dà la ricostruzione lucida di episodi e situazioni di vita vissuta, di vere e proprie tragicommedie…
Ci ritroviamo dapprima in pretura per assistere -noi pure- al processo per… un furto di fichi, compiuto in agro di Salice alla fine dell'Ottocento, protagonisti due campioti: si tratta di un episodio già pubblicato e da me letto con gusto nella locale rivista "Il Salice".
Ancora "L'acchiatura" è l'argomento del secondo brano: vi si racconta del rinvenimento pure casuale di un tesoretto di monete antiche. Ed, egualmente in esso, il dialogo ideale tra documenti, luoghi e memoria "forma il tessuto e la trama di quel prodotto della cultura umana che è sempre la Storia" -sostiene Scandone-, così come -aggiungo io- la microstoria, la piccola storia o storia locale.
Interessantissimo, infine, il terzo saggio sulle Vie di Salice nell'Ottocento. Esplicitamente l'autore confessa d'aver desunto gli odonomi dai volumi del Quarta e del De Nisi, ma pure dallo Stato civile comunale.
Forse qualche ipotesi interpretativa (per esempio, di tipo glottologico -viro / januarius-) non è condivisibile, ma la ricostruzione appare senza dubbio di notevole valore.
E, visto che in appendice lui cita alcune indicazioni toponomastiche cittadine (presenti nella mia Salice nel Cinquecento), voglio ricordare che in quell'importante mio studio riporto solo toponimi relativi -in particolare- al capitolo "Le istituzioni di cristiana solidarietà".
Esorto perciò Scandone o altri studiosi a recarsi nell'archivio di Stato di Lecce o nell'archivio diocesano di Brindisi -biblioteca "De Leo"- per analizzarvi, purtroppo con lunga e solerte pazienza di mesi e di anni, rispettivamente (a Lecce) gli atti dei notai salicesi del Cinquecento -D'Oria, Grasso, Capuzzello- e (a Brindisi) i documenti della stessa epoca. Se vorranno affrontare tale improba fatica, avranno la soddisfazione di venire a conoscenza della toponomastica più antica di Salice (dell'abitato e del territorio) e con facilità potranno confrontarla con l'attuale.
Con questo invito, termino: non voglio più oltre tediarvi. Vi ringrazio per la cortese attenzione, saluto i tanti cari amici e vi auguro un felice anno 2010!
Gino Giovanni Chirizzi
Nessun commento:
Posta un commento